Introduzione

 Il tema che propongo oggi in occasione della nascita del Centro studi antropologici, paleo patologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo è davvero inusuale: riservandomi un approfondimento nel testo definitivo, vorrei tentare di leggere in estrema sintesi le scritture antiche, di ricostruire le parole incise sulla pietra, partendo da quelle epigrafi che ci conservano in particolare una serie di notizie, spesso frammentarie, sulle malattie, sulle cause di morte e sui medici in età imperiale romana. Il testo non pretende di esaurire una documentazione ampia, complessa e fin qui poco studiata, ma si propone di fornire solo alcuni esempi particolarmente significativi.

 Il tema può essere solo accennato nelle sue linee essenziali, per indicare piste di ricerca che riescano a partire dalle caratteristiche dell’epigrafia sacra e funeraria nel mondo antico. A differenza delle iscrizioni funerarie moderne, gli epitafi latini conservano le più svariate informazioni sulla vita e sulla morte dei defunti, sulla salute, sulle malattie, sulle cause del decesso, sul dolore dei parenti sopravvissuti, sulla durata della vita, sull’agonia, come ad Olbia per l’epitafio cristiano di Valeria Nispenini di dolcissima memoria, ricordata dal marito Pribatio e dal figlio Balentinus, morta a 55 anni nel corso del IV secolo, compianta anche per le sofferenze di una morte che è arrivata implacabile dopo 13 lunghi giorni di agonia, doluit dies XIII. Così a Roma Probina, vissuta 17 anni, 100 soli giorni con il marito, ammalata per 45 giorni, aegrotavit dies XXXXV prima di riposare in pace (ICUR I 3903 = CLE 1339 = ILCV 3330).

 1. – L’agonia

 Il tema della terribile durata dell’agonia dei moribondi, particolarmente rilevante in Sardegna, è stato studiato recentemente anche con riguardo alle competenze del dio Viduus, venerato ai margini del municipio di Karales. In passato Paola Ruggeri ha affrontato l’iscrizione di Sanluri che nomina una divinità poco nota, legata al rapporto coi morti e richiamata da Varrone a proposito delle arcaiche formule degli Indigitamenta. Si tratta di Viduus, al quale un liberto del municipio di Cagliari, C. Iulius Felicio si rivolge grato, ponendo una dedica in occasione dell’ampliamento dell’area sacra del dio (CIL X 7844). Siamo di fronte a un unicum epigrafico, che documenta nell’isola il culto riservato a un dio il cui compito, in base a quanto scrivono Varrone, Tertulliano e Cipriano, era quello di presiedere al distacco dell’anima dal corpo, cioè al momento terminale (nel senso di terminus latino) che segna la frontiera tra la vita e la morte, rendendo più breve e meno dolorosa l’agonia del malato: per TertullianoViduus è il dio qui anima corpore viduet, quem intra muros cludi non permittendo damnastis. Dunque un dio che, per quanto Cipiriano considerasse feralis et funebris, era benefico e salutare, sentito come amico dei moribondi, anche se il suo culto non poteva esser praticato se non all’esterno, addirittura ai margini della città, comunque extra muros. Emergono da queste poche righe del nostro testo aspetti misteriosi di tradizioni religiose e competenze che in Sardegna sono documentate dall’inizio dell’età imperiale ma che si estendono nel tempo fino all’età medioevale. Al momento del passaggio del paganesimo al cristianesimo, religione e magia si fondono, come nella vicenda del governatore della Sardegna sotto Valentiniano e Valente nel IV secolo d.C., Flavio Massimino, e del suo amico sardo, capace di evocare le anime dei morti e trarre presagi dagli spiriti: per Ammiano hominem Sardum … eliciendi animulas noxias et praesagia sollicitare larvarum perquam gnarum (Mastino, Pinna 2006).Del resto il tema della durata dell’agonia in Sardegna è in qualche modo riassunto dalla vicenda che Polibio attribuisce a Timeo sull’uccisione dei vecchi settantenni nel corso del III secolo a.C. in età cartaginese e che prosegue sul piano strettamente etnografico già giù fino a Sas Accabadoras della leggenda sarda fino al pieno Ottocento.

 L’attenzione per il momento in cui l’anima ritorna alla quiete del sepolcro è ben documentata in Sardegna e nell’impero romano: si ricordi la Securitas, il desiderio di proteggere le ossa dopo la cremazione, che ritorna a Karales nell’ipogeo dei Vinii, nella necropoli di Tuvixeddu collocata fuori le mura. Con l’avvento del cristianesimo, conosciamo le maledizioni che colpiscono i violatori della tomba (la sorte di Giuda traditore, la lebra di Giezi servo del profeta Eliseo ecc.): il corpo deve riposare nella tomba, protetto dalla croce, che a Trapani è definita speranza dei Cristiani, rovina del Diavolo, resurrezione dei Cristiani, cacciata dei demoni, arma invincibile, vita per quelli che credono, invece morte per quelli che non credono. E ciò fino al momento in cui il corpo si riunirà con l’anima nel giorno del giudizio universale, nel dies tremendus iudicii, nel dies ultimus, nel dies novissimus, quando sarà possibile che grazie alla potenza di Cristo la carne riesca vivere di nuovo e il defunto possa godere la gioia dell’ultima luce: Christi ope rursus sua vivere carne et gaudia lucis nobae ipso dominante videre (nell’iscrizione del diacono Silbius a Olmedo, CIL X 7972).

 Sullo sfondo rimangono le specifiche caratteristiche della medicina in età antica, spesso confusa con i culti religiosi salutari, il culto di Esculapio-Asclepio, in Sardegna Merre; il culto del Sardus Pater; il culto delle Ninfe salutari come a Forum Traiani oppure di Hygia. Sempre a contatto con la magia, in rapporto a invincibili maledizioni come sulle defixiones o a competenze tradizionali, spesso solo immaginate ed improbabili. I medici appartenevano ad uno strato sociale basso ed erano il più delle volte considerati i colpevoli finali della scomparsa del paziente. In altri casi, come per Antonio Musa, il medico di Augusto, i medici erano apprezzati e ricompensati: per Musa fu espressa la generale gratitudine della repubblica per aver salvato il principe da una pericolosa malattia, collocando una statua presso quella di Esculapio: statuam aere conlato iuxta signum Aesculapii statuerunt. Allo stesso modo il militare M. Ulpius Honoratus riconosce onestamente il successo dell’opera di L. Iulius Helicus, medicus, qui curam mei diligenter egit secundum deos, e scioglie un voto a Esculapio e Hygia a Roma, ILS 2194.Ancora a Roma al Testaccio sappiamo che fu un collegium salutar(iorum) a costruire un tempio Aesculapio et Saluti Aug(ustae), ILS 3840. Ma dove i medici erano impotenti, assenti o incapaci, interviene la Bona Dea che riusciva a far guarire il paziente disperato, come a Roma per il servo pubblico Felice, conduttore di asini per conto del collegio de pontefici, che aveva sciolto il voto Bonae deae agresti .. ob luminibus restitutis, derelictus a medicis, post menses decem beneficio domiaes medicinis sanatus per eam (ILS 3513). Del resto gli stessi medici riconoscono i benefici della pratica religiosa, come i medici torinesi costituiti nel collegio intestato ad Esculapio e Hygia, subito dopo la morte del divo Traiano (ILS 3855 a).

 2. – La traslatio cadaveris

 Sappiamo di morti improvvise avvenute lontano dalla propria patria, che imponevano la translatio cadaveris, un tema che ha molti riflessi, in rapporto al rituale funerario, inumazione o incinerazione. Si pensi alle tombe mausoleo o ai cenotafi, come quello del marinaio Fintone morto in marre ma ricordato con un cenotafio sulla spiaggia di Caprera, ricordato dal poeta Leonida di Taranto. Un’epigrafe trovata presso i resti della Colonia Aurelia Augusta Pia Canosa e presentata nel 1966 da Erminio Paoletta scritta in lingua greca recita: «Mia patria Mira, e traggo i natali dalla Licia. Essendo mercante d’arte, venni a causa della morte dell’infelice fratello Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non così infatti crebbe Nireo (il più bello dei Greci a Troia) nella bella Smirne, non i Dioscuri, i figli di Leda presso la vorticosa corrente dell’Europa. Pose Ametisto, fratello di Zosimo». Ametisto accorre a Canosa per rendere le estreme onoranze al fratello Zosimo, scomparso lontano da Mira in Licia: anch’egli forse era stato un mercante d’arte nella Canosa del II secolo d.C.

 Il tema è quello della morte improvvisa e della sepoltura lontano dalla patria: il v(ir) s(pectabilis) Pascalis, onorato dalla comunità cittadina della colonia di Turrris Libisonis per i suoi meriti, è definitivamente sepolto in terra straniera, dunque nell’isola lontana da Roma, tra persone sconosciute: hic iace[t] peregrina morte raptus (AE 2002, 634 a). Diversamente il corpo del messo pontificio Annius Innocentius morto in Sardegna fu traslato a Roma: si trattava di un attivissimo acol(uthus), cheob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit. Inviato per due volte alla corte di Costantinopoli, ma anche in Campania, Calabria ed Apulia, infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum (ICUR IV, 11805). Analogo trasferimento ebbero le ossa di Papa Ponziano dalla Sardegna a Roma (nelle catacombe di Callisto), riportate in pompa magna dal clero romano e da Papa Fabiano durante il regno di Gordiano III.

 In epoca pagana, la traslazione doveva essere autorizzata dai pontifices, dall’imperatore, da un governatore. E’ il caso delle ossa del liberto imperiale M. Ulpius Phaedimo, morto a Selinunte il 12 agosto 117, il cui corpo fu trasferito a Roma nel 130: reliquiae traiectae eius ex permissu collegii pontific(um) piaculo facto (ILS 1792). Allo stesso modo le spoglie del liberto imperiale M. Ulpius Hermia furono trasferite a Roma dalla Dacia: cuius reliquiae ex indulgentia Aug(usti) n(ostri) Romam (ex Dacia) latae sunt (ILS 1593). Il corpo del diciottenne cavaliere L. Vetidius Maternus Vetidianus fu traslato da Cartagine a Roma grazie all’autorizzazione del governatore : permissu praesidis a Khartagine de studio relatis reliquis (ILS 7742 a). Le ossa di Herennia Lampas, concubina di Herennius Postumus, furono portate a Tivoli dalla Sardegna nel corso del II secolo, cuius ossa translata ex Sardinia (CIL XIV 3777: un percorso che è documentato dalle epigrafi di Herennia M. f. Helvidia Aemiliana, regina (patrona) del cavaliere Ti. Claudius Liberalis Aebutianus, tra Elmas in Sardegna (EE VIII 718) e Tivoli presso il tempio di Ercole Vittore (CIL XIV 4239).

 3. – Le malattie e la loro eziologia

 Altre malattie ci sono note dal racconto fatto sull’epitafio dal defunto in prima persona: così ad Iulium Carnicum per Laet[i]lius C(ai) [f(ilius) G]a[ll]us, che ricorda le febbri altissime provocate da un’infezione: regrediens incidi febribus acris at pres[s]us graviter [a]misi cu[m] flore i[u]vent[a]m (CIL V 8652 (p 1095) = CLE 00629). A Tarragona il giovane auriga Eutyches muorea 22 anni ancora a causa di una febbre violenta contro la quale i medici sono apparsi impotenti: ussere ardentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314 (p 973) = CLE 1279 = ILS 5299 = AE 1972, 283). In altri casi a raccontare la morte della persona cara è un parente che è sopravvissuto, come a Roma per Ephesia Rufria, ma[ter et coniux bona], qua[e mala periit febri] quam medici praeter e[xspectatum adduxerant] solamen (CIL VI, 25580 (p 3532) = CLE 00094).

 Ad Auzia in Mauretania Cesariense i genitori piangono i due bambini Clemens e Vincentia strappati alla vita da una malattia contagiosa nel fiore degli anni. Il termine pestis difficilmente allude a una vera epidemia: pestis acerba abstulit hos pueros(CIL VIII 9048 = CLE 1610). Allo stesso modo un trentenne a Cartagine è stato strappato da una pestilenza: eripuit pestis (CIL VIII, 25008 = ILTun 1002). Così ad Ostia l’accusa di chi sopravvive è nei confronti della pestis dira (CIL XIV 632 [p. 482] = CLE845).

 Frequente anche il termine lues, da tradurre lue, peste, contagio, epidemia, più genericamente flagello o calamità, come a Bedaium nel Norico, con un epitafio che ricorda Iulius Victor e altri cinque defunti, qui per luem vitam functi sunt, scomparsi tutti assieme nell’anno 184 d.C., Mamertino et Rufo co(n)s(ulibus) (CIL III 5567 (p. 2328, 201) = AE 2008, 1018). Altre volte il patrono esprime il compianto per l’infelice dolcissima alumna, come a Parma per Xanthippe sive Iaia, che l’infuocata malattia ha reso febbricitante: lues ignita torret (CIL XI 1118 (p. 1251) = CLE 98).

 Incerta è la natura del morbo che ha colpito M. Cornelius Optatus ad Anticaria in Betica, ancipiti morbo recreatus votum a(nimo) s(olvit) (CIL II 746 = 2036).

 A Cordova il centurione T(itus) Acclenus T(iti) f(ilius) Qui(rina) e sua moglie morbo excruciati morte obierunt (CIL II 287 = 2215 [p. 886] = ILS 8477 = AE 2002, 167). A Cirta i mala fata hanno strappato al marito l’amata Ca[eli]a C(ai) Audasi fil(ia) R[ufa], [infesto mod]o quam dolu[i morbo es]se per[emptam] (CIL VIII 7255 = 19454 = ILAlg. II,1 830 = CLE 560). A Melta in Moesia inferior la defunta maledice i saeva e impia fata, ricordando il crudelis thalamos post mor[bi accessum] (ILBulg 248 =AE 2009, 1201).

 Cristiano è il carmen urbano per Alexander, tormentato da gravi malattie ora rinato in Cristo con l’aiuto del martire: [gravibus m]orbis iactatus tempore [longo] redd[i]tus est v[itae mar]tyris auxil[io] (ICUR- IX 24312 = ILCV 1990).

 4. – Malattie: la malaria

 Non raramente le iscrizioni citano le malattie che hanno portato alla morte, prima tra tutte in Sardegna la malaria, attestata nelle fonti già da epoca repubblicana. In questa sede baserà ricordare il Bellum Sardum combattuto da Ampsicora contro i Romani dopo la battaglia di Canne: Tito Livio ricorda che una ambasceria dei principes sardi, dunque espressione sicuramente delle principali città sardo-puniche (escluse le antiche colonie fenicie, forse parzialmente rimaste fedeli ai Romani) e di alcuni popoli della Sardegna interna, si recò a Cartagine, chiedendo un appoggio militare alla rivolta che serpeggiava ovunque nell’isola, dove i Romani avevano poche truppe (una legione) e dove il governatore Q. Mucio Scevola si era ammalato alla fine della primavera ed era invalido, apparentemente a causa della malaria: Livio ci propone un sintetico quadro clinico, un morbo lungo e noioso ma non pericoloso (non tam in periculosum quam lagum morbum implicitum), specificandone l’eziologia (gravitate caeli aquarumque advenientem exceptum). Chi aveva preso l’iniziativa della triplice alleanza tra Sardi Pelliti, Sardi delle città costiere attorno a Cornus e Cartaginesi era stato proprio Hampsicora, battuto nel 215 a.C. da Tito Manlio Torquato, chiamato come privato cittadino a sostituire il pretore ammalato come privatus cum imperio.

 Quattro secoli dopo, propter adversam corporis valitudinem forse per il ripetersi di febbri malariche, l’imperatore Filippo l’Arabo scioglie dal giuramento e dal servizio militare nell’anno 246 il giovane M(arcus) Aurelius Mucianus originario della Moesia inferiore, vigile a Roma della Coh(ors) II vig(ilum) Philippiana che aveva svolto un servizio militare in Sardegna: un nuovo diploma recentemente acquistato dal Museo di Mainz contiene durante l’età di Filippo l’Arabo un riferimento alla Sardinia, nell’ambito di una serie di missioni speciali fuori dalla capitale, probabilmente in compagnia di altri colleghi. Le date di soggiorno in Sardegna (28 maggio-15 agosto 245) rimandano ad un particolare periodo dell’anno, che sembra coincidere con la mietitura e la raccolta di frumento da spedire da Olbia verso Pisa (ulteriore destinazione di Muciano l’anno successivo), proprio nella stagione in cui nella grande isola mediterranea la malaria colpiva gli stranieri, in un modo però forse meno aggressivo di quando non si introdurrà in età medioevale il temibile Plasmodium falciparum. Ci sono del resto molti elementi per interrogarsi sui misteriosi contenuti degli incarichi affidati a Muciano nel corso della sua breve e sfortunata carriera, che a causa della malattia si conclude con il grado di soldato semplice proprio come era iniziata: quest’unica attestazione della presenza di un vigile e di un rappresentante della guarnigione urbana nell’isola può forse aver avuto più di una ragione.

 5. – Le malattie provocate da una maledizione

 Le malattie che colpiscono i pazienti sono citate nelle iscrizioni per ragioni diverse e spesso vengono spiegate di malati o dai parenti del defunto con l’invidia, la maledizione, il malocchio di persone ostili, nemici personali o avversari. Un capitolo complesso e di difficile comprensione è rappresentato dalle tabellae defixionum, che in questa sede richiamerei solo cursivamentemente, come quando si augura un nemico nel nome di Proserpina e Plutone la febris quartana tertiana cottidiana a Roma (CIL I 2520, p. 967). Oppure anche (sulla Via Appia): patiatur febris, frigus tortionis palloris sudores obbripilationis meridianas interdianas serotinas nocturnas (CIL VI 33899 = AE 2004, 201).

 Alla stessa categoria sembra appartenere lo pseudo-epitafio dedicato a Carmona in Betica in vita Dis M(anibus) feris, invocati perché colpiscano violentemente una Luxsia figlia di Antestius: caput cor co(n)s[i]li<u>(m) valetudine(m) vita(m) membra omnia accedat morb<u>(s) cotid(i)e (AE 2010, 108).

 Ad Augusta Treverorumil defiggente invoca l’intervento della dea, la domina Iside, per provocare un profluvium, probabilmente una emorragia o una dissenteria, a danno di un odiato liberto, un Tib. Claudius Germanus, della nazione dei Treviri:profluvium mittas et quidquid in bonis habet in morbum megarum, espressione intesa ora da Daniela Urbanova nel senso di un augurio inquietante: «tutto ciò che ha di sano venga colpito da una malattia inguaribile», senza escludere una diretta allusione all’epilessia (Kropp-2008, 4,1,3/16). Il dio al quale si chiede la malattia o la morte verrà premiato con un sacrificio, come a Treviri per Hostilla, quae mihi fraudem fecit, se verrà tormentata a morte (si tu consumpseris) (CIL XIII 11340, V2 = Kropp-2008). Allo stesso modo il lato B della celebre tavoletta urbana con la defixio contro Plotio è stato interpretato recentemente dalla Urbanova «che [Plotio] muoia male, perisca male e crepi. Lo passi, lo consegni, affinché non possa vedere, scorgere, guardare la luce del mondo – cioè affinché non possa vivere» (CIL I,2 2520). A Bath in Britannia nel IV secolo ci è conservata una “preghiera di giustizia” contro un ladro, …ut mentes suas perda(at) et oculos suos in fano ubi destinat (Tomlin 1988), da tradurre. «che il ladro perda la ragione e la vista nel tempio dove risiede la dea». L’augurio più frequente che si rivolge ai defissi è quello di perdere le mani, i piedi, tutte le membra, la vista.

 Particolamente elaborata la defixio urbana che invoca Dite, Proserpina, il cane infernale tricipite, le larve, le furie, altri dei inferi, perché la vendetta riguardi tutte le membra della nemica Caecilia Prima: Orcini tricipites vos exedit[is] iocinera pulmones cor cum venis viscera membra medullas eius diripiatis dilaceretis lumina eius . … peruratis lumina stomachum cor eius pulmones adipes cetera membra omnia illius, peruratis; ossum frangant medullas exedint iocinera pulmones dirimant vosque Ossufragae inferae tradatis illam; … eripias somnum , soporem obicias illae amentiam dolares stupores malam frontem usque donec pereat intereat extabescat (AE 2010, 109). Con la conclusione già citata: febres cotidianas tertianas quatarnas usque dum animam eius Caeciliae Primae eripiatis.

 A Pompei c’è ripetuta la preghiera: Or(o) te aegrotes (CIL IV 2960), oppure Aegrota / Aegrota / Aegrota (CIL IV 4507). Numerose altre defixiones augurano che il corpo dell’avversario possa decomporsi presto: N(umerius) Vei Bareca tabescas a Pompei in età repubblicana (CIL IV 75 = CIL I 1644c = ILLRP 1141); Quis (h){e}ic [ulla(?)s]cr[ipser]it [t]abe[scat] n[eque] nominetur (CIL IV 7521);oppure a Capua: Cn(aeum) Numidium Astragalum v(oveo?) il(l)ius(?) vita(m) valetudin(em) qua<e>stum ipsu(m)q(ue) uti tabescat morbu [ac(?)] C(aius) Sextiu(s) tabe/[scat] ma(n)do rogo (CIL X 3824). Passano i secoli e l’uso si mantiene anche tra i cristiani: Agnella teneatur ardeat de{s}tabescat usque ad infernum semper (AE 1941, 138, Roma). In Corsica a Mariana ci si augura la vendetta contro C. Statius, ut male contabescat usque dum morie[t]ur (AE 1982, 448).

 L’óstrakon di Neapolis in Sardegna (un frammento di parete d’anfora), probabilmente del III secolo d.C., contiene una formula magica, su un testo di quattro linee, in cui l’estensore chiede a una divinità, Marsuas, che Decimo Ostilio Donato diventi misero, muto e sordo: «O Marsuas di Neapolis, rendi misero, muto e sordo Decimo Ostilio Donato, per quanto tu possa rispondere all’uomo» (AE 2007, 690).

 Bisogna infine tener presente le tante iscrizioni che attribuiscono una morte improvvisa alla malvagità di un mago: eripuit me saga manus crudelis ubique, cum manet in terris et nocit arte sua (a Verona, ILS 8522). Sceleratissimi servi infando latrocinio nomina ordinis decurioum defixa monumentis (ILS 3001).

 6. – Povertà e malattia

 Il tema del rapporto tra povertà e malattia viene tracciato nel recente volume, che ho presentato a Palermo a Villa Wittaker, Poveri ammalati e ammalati poveri, Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure assistenziali nell’Occidente romano in età tardoantica, a cura di Rosalia Marino, Concetta Molé, Antonino Pinzone, con la collaborazione di Margherita Cassia.

Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, se nell’immaginario collettivo degli antichi la povertà sia collegata con la malattia o alla rovescia con la salute. E’ un fatto che i poveri erano più esposti a pestilenze, malaria, polmonite soprattutto se contratta da una donna in gravidanza, tubercolosi, tetano. Le cause principali spesso derivavano da topi, cani rabbiosi e altri animali che si aggiravano liberamente nelle città, per le strade e per le case, con tutto il bagaglio di infezioni che potevano portarsi appresso e trasmettere all’uomo (quali la leptospirosi e la salmonellosi), aggravate dal sovraffollamento e dalla mancanza di servizi igienici adeguati, l’utilizzo di latrine pubbliche e di acqua infetta. Le donne dei ceti superiori avevano invece a disposizione domus o ville luminose e arieggiate, oltre a schiavi e liberti che evitavano loro le più malsane incombenze.

 Eppure il corpo del povero, ed è Valerio Neri (La rappresentazione del corpo del povero fra salute e malattia) a spiegarcelo, assurge ad emblema di salute, secondo un filone della letteratura filosofica, etica e medica che percorre la cultura antica (da Antistene e Socrate) sino ad arrivare alla tarda antichità e ai Padri della chiesa, in quanto il povero conduce un vita secondo natura (katà phusin); del resto in Occidente Agostino descrive la salute come patrimonium pauperis. La salute del povero è frutto della sobrietà nel regime alimentare ed è corroborata dall’attività fisica. Al povero sano viene contrapposta la rappresentazione del ricco, crapulone e lussurioso che spesso contrae malattie come la podagra, dovute alla sua avidità alimentare.

 La rappresentazione del povero malato, così come si ritrova sistematizzata negli scritti dei Padri della Chiesa, gli conferisce una sorta di status privilegiato sotto il profilo etico: in particolare è ritenuto esemplare il pauper verecundus, caduto in miseria rispetto ad una pregressa condizione sociale elevata. Riprovazione sociale si riversa al contrario sul mendicus, valido fisicamente, che non si impegna in alcuna attività e preferisce raccogliere in giro le oblazioni. Per Salviano di Marsiglia il terminemendicus conserva una simbologia negativa secondo l’accezione pagana e viene utilizzato ad indicare l’individuo privo di qualunque capacità di riscattarsi a livello economico e di incidere nel contesto sociale. Si tratterebbe dell’articolazione più bassa all’interno della paupertas, se il mendicus aveva veramente un ruolo addirittura inferiore a quello del pauper e dell’egens.

 Osserviamo l’affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall’iscrizione di Matera,auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulnus; e poco oltre: quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem, proveniente dalla Basilica di San Gavino a Porto Torres (AE 2002, 632 = 2003, 689). A Tharros pauperum mandatis serviens è Karissimus di AE 1982, 430. Ancora a Porto Torres Flavia Cyriace rem suam [pauperibus] / linquit (AE 1994, 796).

 7. – Strutture di assistenza

 Le iscrizioni documentano come il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Sul modello dell’Oriente anche l’Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l’accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Arnaldo Marcone e Isabella Andorlini (Salute, malattia e prassi ospedaliera nell’Egitto tardoantico) ricostruiscono analiticamente il quadro in cui si articolavano le diverse strutture ospedaliere nell’Egitto tardo-antico: dai nosokomeia (ospedali), agli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia). Il lessico per designare i luoghi di cura dell’Oriente greco fu importato con una certa semplificazione in Occidente: qui fu xenodocheion il termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia. in Sardegna, a Olbia, a Tharros e a Turris Libisonis. L’espressione auxilium peregrinorum ricorre più volte in Sardegna in iscrizioni del IV e V secolo che contengono concetti riferiti alla classe sociale dei ricchi possessores; esse sembrano conservare a giudizio di Letizia Pani Ermini un emblematico elemento di continuità l’immagine del ricco proprietario, uomo di grande integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei pellegrini: ad Olbia il cristiano Secundus, è esaltato come magnae integritatis vir bonus, pater orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, religiosissimus adque exercitatissimus totius sinceritatis disciplin(ae) (CIL X 7995); a Tharros si ricorda in un’epoca che per il De Rossi il IV secolo, ma che per il Duval appena più tarda, Karissimus, amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens (AE 1982, 430). A Turris Libisonis Matera è esaltata dal vulgus di fine IV secolo come auxilium peregrtinorum (AE 2002, 632 = 2003, 689, vd. AE 1994, 796). Del resto dall’epistolario di Gregorio Magno sappiamo che proprio a Turris Libisonis il vescovo Mariniano, arrivando fino all’esarca d’Africa, aveva dovuto difendere contro il dux Theodorus i poveri della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et commodalibus affligi dispendiis.

 8. – I medici

 Il naturale contraltare della figura del povero ammalato è rappresentato dalla figura del medico e si può tentare di analizzare la relazione interna al triangolo ippocratico, medico-malato-malattia, ossia il nesso inscindibile tra paziente, medico curante e l’interazione tra questi due soggetti che incide sul decorso della malattia e sugli effetti della terapia. Sottesa costantemente a questa problematica la dicotomia tra la fides e l’avaritia del medicus che viene alternativamente considerato disinteressato e amico oppure avido, incompetente e preoccupato solo dal tornaconto economico.

 Tutto ciò in una prospettiva diacronica che prende le mosse dall’evergetismo di stampo ellenistico di Cesare e Augusto e a cui fa da sfondo la differente sensibilità culturale al giuramento ippocratico e al suo valore etico da parte del medico, delle istituzioni imperiali e delle istituzioni ecclesiastiche. Come non pensare del resto ancor oggi all’universalità del modello ippocratico che si traduce nelle società occidentali odierne nello scontro tra il diritto alla cura di alto livello per tutti nelle forme principalmente della sanità pubblica e il privilegio della cura specialistica per i pochi che ne hanno la possibilità?

 Le iscrizioni cristiane esaltano quei medici che hanno dato gratuitamente la propria opera per assistere i pazienti, come il diacono (levita) Dionysius, artis honestae functus et officio quod medicina dedit, huius docta manus famae dulcedine capta dispexit pretii sordida lucra sequi saepe salutis opus pietatis munere iuvit dum refovet tenues dextera larga viros obtulit aegrotis venientibus omnia gratis (ICUR VII 18661 = CLE 1414 = ILCV 1233).

 Numerosi sono i medici ci