GINO FORNACIARI
*Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
Divisione di Paleopatologia
Università di Pisa
Lo studio delle mummie, naturali ed artificiali, della Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli (XV-XVII secolo) ci ha fornito informazioni sulle tecniche di imbalsamazione di Età Rinascimentale e ha permesso la diagnosi di tre casi di malattia infettiva (vaiolo, sifilide venerea, condiloma) e di due casi di patologia neoplastica (carcinoma cutaneo ed adenocarcinoma). Gli studi paleopatologici effettuati hanno cosi dimostrato che è possibile applicare a questo tipo di materiali alcune moderne tecnologie biomediche, come l’immunoistochimica, la microscopia elettronica e la biologia molecolare, con risultati di altissimo interesse per ha storia delle malattie.
Key words: mummies, Renaissance, Naples, paleopathology
La monumentale sacrestia di S. Domenico Maggiore custodisce, su un corridoio pensile posto a circa 4 metri di altezza che corre su tre lati della sala prossimo alla volta, 38 casse lignee contenenti i corpi di 10 re e principi aragonesi e di altri nobili napoletani deceduti dalla seconda metà del XV a tutto il XVI secolo (Fig. 1). Queste casse, in origine sparse nella chiesa, furono raccolte nella sacrestia nel 1594 per ordine del re Filippo II di Spagna1.
I sarcofagi, sontuosamente ricoperti di sete, di broccati o di altre stoffe preziose, risultano disposti su due file sovrapposte; la fila più bassa è costituita da casse più piccole, per lo più anonime, mentre la fila più alta comprende casse più grandi, alcune delle quali recano gli stemmi e i nomi dei personaggi sepolti, che talora è possibile identificare con relativa facilità. Si può citare fra gli altri il re Alfonso I d’Aragona (deceduto nel 1458), il re Ferrante I d’Aragona (deceduto nel 1494), il giovane re Ferrante II (+1496), la regina Giovanna IV (+ 1518), la duchessa di Milano Isabella d’Aragona (+ 1524) e il marchese di Pescara Francesco Ferdinando d’Avalos, vincitore della battaglia di Pavia contro il re Francesco I di Francia nel 1525 (deceduto lo stesso anno)2.
Un primo esame mostrò che i sarcofagi contenevano ancora i corpi, per lo più mummificati e in ottimo stato di conservazione, dei rispettivi defunti.
Una tipica deposizione di S. Domenico, ancora intatta, è quella di Pietro d’Aragona, III duca di Montalto, deceduto nel 1552 a 12 anni di età3. Essa consiste in un grande sarcofago esterno (o “arca”) contenente una seconda cassa antropoide in legno grezzo con il corpo riccamente vestito del ragazzo, nello stile del XVI secolo; il corpo, che reca ancora le piante depostevi sopra al momento della sepoltura (mazzi di alloro, di rosmarino e di bosso), giace su un letto di calcinacci, per il drenaggio dei liquami cadaverici (Fig. 2). La mummia è apparsa in ottimo stato di conservazione, con le mani incrociate sulla regione pubica, la pelle di colore marrone chiaro, la testa priva di capelli e le labbra retratte sui denti anteriori.
Ci troviamo di fronte ad una serie di mummie unica in Italia non solo per l’antichità e per lo stato di conservazione dei corpi, ma anche e soprattutto perché si tratta di personaggi storici, di cui si conosce dettagliatamente la vita e la causa di morte (ad esempio la malaria per il re Ferrante II, la tisi per il marchese di Pescara). E’ stato perciò possibile ed estremamente interessante confrontare i reperti paleopatologici con i dati storici. Finora in Europa mummie di questo tipo, appartenenti a imperatori e a principi Asburgici, erano note solo nelle Catacombe dei Cappuccini di Vienna4.
Dal 1984 al 1987 tutti i sarcofagi, numerati progressivamente nel corso delle esplorazioni, furono accuratamente esaminati da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Pisa (Fig. 3)5.
Le vesti, talora molto pregevoli, e i gioielli dei corredi funebri furono recuperate per essere poi restaurate ed esposte nella Sacrestia della Basilica a cura della Soprintendenza per i Beni Storici ed Artistici di Napoli.
Le mummie sono state prima radiografate e poi sottoposte ad esame antropologico ed autoptico sul posto, mentre gli studi di laboratorio sono stati effettuati a Pisa.
Daremo ora un breve resoconto dei principali risultati ottenuti allo stato attuale delle ricerche.
Sono stati esplorati in tutto 38 sarcofagi, 8 dei quali sono risultati vuoti mentre uno conteneva una deposizione doppia. Quasi tutte le deposizioni sono risultate più o meno disturbate (Fig. 4). Incrociando i dati di archivio con i dati antropologici (sesso ed età di morte) e con la cronologia relativa ottenuta dallo stile delle vesti6, integrati talora dalle datazioni radiocarboniche7 e dendrocronologiche8, è stata possibile l’identificazione praticamente sicura di 18 individui, incerta di 9 individui, mentre non è stata possibile l’identificazione di 4 individui (Tabella 1).
Si tratta di 27 deposizioni primarie e di 4 deposizioni secondarie o rideposizioni. Fra gli individui esaminati 15, pari al 48,4% del totale, avevano subito un processo di imbalsamazione, mentre 12, pari al 38,7%, sono risultati non trattati. Si ha quindi una certa prevalenza, anche se modesta, di individui imbalsamati. Il fenomeno non desta meraviglia, data l’elevata classe sociale degli individui di S. Domenico; infatti è noto che, durante il Rinascimento, “i re europei e tutti i grandi personaggi davano ai medici e ai chirurghi l’incarico di imbalsamare i loro cadaveri”9. Per S. Domenico abbiamo inoltre la notizia di archivio dell’avvenuta imbalsamazione del corpo di Antonio d’Aragona, IV duca di Montalto (deceduto nel 1584): “lo corpo e in sacrestia imbalsamato”10.
Gli individui scheletrizzati sono 6, pari al 22,2% del totale; però fra gli individui imbalsamati troviamo un solo caso di scheletrizzazione, pari al 6,7%. E’ evidente perciò l’importanza del processo di imbalsamazione per la conservazione, almeno parziale, dei corpi.
Quanto alla tecnica di imbalsamazione (Tabella 2) 9 individui su 14, di cui 5 bambini e 4 adulti, risultano eviscerati con una lunga incisione anteriore dal giugulo alla sinfisi pubica e, per accedere alla cavità toracica, è stato tagliato o segato o addirittura asportato lo sterno, oppure le coste o le cartilagini costali sono state tagliate lateralmente con cesoie; in un caso si praticarono entrambe le procedure. Per motivi pratici, lo sterno veniva tagliato soprattutto nei neonati e nei lattanti e meno spesso negli adulti, nei quali prevaleva invece, come nelle moderne autopsie, il taglio delle cartilagini costali ai due lati dello sterno con la successiva asportazione del cosiddetto “piastrone sternale”. Gli altri 5 individui, fra cui un unico bambino e 4 adulti, presentano solo una incisione addominale, dal processo xifoideo dello sterno al pube, e quindi la cavità toracica fu necessariamente eviscerata attraverso il diaframma.
In 13 individui eviscerati su 15, il cervello fu asportato tramite un’estesa craniotomia, di tipo orizzontale e circolare, in 7 casi, o posteriore, e quasi sempre circolare, in 6 casi.
In 4 casi, fra cui due neonati e due adulti, è stata rilevata la pratica di un’estesa scarnificazione delle masse muscolari, a livello del dorso, dei glutei e degli arti.
Quanto ai materiali adoperati per le imbalsamazioni prevalgono nettamente le sostanze resinose, presenti in 10 casi, seguite dalla lana o materiali assimilabili e da materiale terroso o argilloso, presenti in 6 casi; la calce è stata ritrovata in 4 casi, le foglie o i rami di vegetali in 3 casi, mentre la stoppa, le spugne e il mercurio sono stati usati solo 2 volte; in quattro casi infine, 2 lattanti e 2 adulti, il corpo fu avvolto in bende resinose.
Il tipo di legno delle casse interne, cioè delle bare vere e proprie, è stato determinato in 16 casi di deposizioni primarie: prevale nettamente l’abete, utilizzato in ben 9 deposizioni, seguito dal pioppo (4 deposizioni) e dal castagno (3 deposizioni). E evidente, anche nel caso delle bare, la predilezione per le essenze resinose, ritenute favorenti la conservazione dei corpi.
Ci troviamo di fronte a tecniche di eviscerazione e di imbalsamazione assai complesse, che dimostrano quanto meno una lunga ed estesa consuetudine.
Sette individui, peraltro in buono stato di conservazione, non presentano invece alcun segno di imbalsamazione. La causa della mummificazione naturale dei corpi è da ricercarsi verosimilmente nel clima di Napoli; anche la posizione elevata dei sarcofagi, posti a circa 5 m di altezza vicino ai finestroni della sacrestia, e le particolari condizioni microclimatiche della Basilica di S. Domenico devono avere contribuito non poco alla loro conservazione. Inoltre una recente esplorazione dei sotterranei di S. Domenico ha portato alla scoperta di due ampi locali adibiti sicuramente alla disidratazione dei corpi, in quanto dotati di posti numerati per le salme e di spessi letti di sabbia per la raccolta dei liquami cadaverici, oltre che di ampi pozzi di ventilazione. Si tratta di locali utilizzati evidentemente per la “scolatura” dei cadaveri, pratica diffusa in tutta l’Italia meridionale e di cui abbiamo già parlato, cui devono essere state sottoposte anche le mummie naturali di S. Domenico.
Dal punto di vista più strettamente paleopatologico dobbiamo richiamare l’attenzione su due casi di patologia infettiva e due di patologia neoplastica.
La mummia di un bambino anonimo di 2 anni (Fig. 5), deceduto intorno alla metà del XVI secolo (la datazione 14C è 1569±60), rivelò un evidente e diffuso esantema di tipo vescicolo-pustoloso. L’aspetto macroscopico e la distribuzione regionale facevano propendere per un caso di vaiolo, ipotesi poi confermata dal quadro istologico al microscopio ottico e dall’immunofluorescenza con anticorpo contro il virus vaccinico umano. La microscopia elettronica rivelò la presenza, in mezzo a fibre collagene, a nuclei picnotici e a residui di membrane cellulari con rari desmosomi, di un gran numero di particelle simil-virali di forma ovoidale (250 x 150 nm) caratterizzate da una regione centrale più densa (o core) circondata da un’area di minore densità. Dopo incubazione con antisiero contro il virus vaccinico umano, seguita da colorazione con proteina A-oro colloidale, che possiede un tropismo elettivo per le immunoglobuline, le particelle risultarono completamente ricoperte dal complesso proteina A-oro. L’esito dell’esperimento dimostrò chiaramente non solo che la struttura antigenica delle particelle virali, a distanza di oltre quattro secoli, era ben conservata e che il bambino era deceduto per una grave forma di vaiolo, ma anche che erano possibili nuove e insperate strade alle ricerche di paleo-virologia11.
Particolare interesse paleopatologico riveste lo studio di un caso di treponematosi, riscontrato nella mummia di Maria d’Aragona (1503-1568), marchesa del Vasto in Puglia. La nobildonna, importante esponente del Rinascimento italiano e nota fra i contemporanei per la sua bellezza, fece parte del famoso circolo intellettuale e letterario di Ischia, il cui esponente più importante fu la poetessa Vittoria Colonna, amica di Michelangelo. Il braccio sinistro del corpo mummificato mostrava un’ulcera di 15 x 10 mm, coperta da una fasciatura di lino con intercalate alcune foglie di edera (Hedera helix). L’immunofluorescenza indiretta con anticorpo umano anti-Treponema pallidum permise l’identificazione di un gran numero di filamenti dotati di un’intensa fluorescenza giallo-verde e con le caratteristiche morfologiche di treponemi fluorescenti. La microscopia elettronica inoltre permise l’osservazione di alcune strutture tipiche delle spirochete come, per esempio, la fibrilla assiale. In tal modo i reperti immunoistochimici ed ultrastrutturali dimostrarono chiaramente un’infezione da treponemi; più in particolare l’ulcera cutanea può essere considerata il risultato di una gomma luetica al terzo stadio e un quadro di sifilide venerea costituisce la diagnosi più probabile12.
La scoperta è importante in quanto si tratta di germi che risalgono al XVI secolo e il cui studio potrebbe chiarire non pochi aspetti della biologia del Treponema, e forse anche l’origine della sifilide venerea, nella “fase epidemica” della malattia.
Ulteriori esami sulla mummia evidenziarono, nella regione paravulvare destra, una neoformazione cutanea arboriforme peduncolata (circa 3×12 mm) che, reidratata nella soluzione di Sandison, fu sottoposta ad esame istologico con colorazione tricromica di Masson. La microscopia ottica mostrò una lesione cutanea papillare esofitica con ispessimento epidermico e tessuto interno meno denso, accompagnata da dilatazione vascolare. L’aspetto macroscopico e istologico hanno suggerito una diagnosi di condiloma acuminato13, una lesione squamosa indotta da papillomavirus, detta anche “verruca venerea”.
Al fine di accertare la presenza del virus del papilloma umano (HPV), da una sezione di tessuto dello spessore di 5 mm, inclusa in paraffina, fu possibile estrarre il DNA antico, amplificando in un primo tempo una sequenza di 141 paia di basi comune a 25 HPV genitali diversi14. Il frammento di DNA amplificato è stato usato per ibridazione diretta con oligonucleotidi dei tipi HPV 6, 11, 16, 18 e 33, rivelando la presenza di HPV 18, un virus ad alto potenziale oncogeno. Per confermare i risultati, i frammenti amplificati sono stati clonati e sequenziati. Il sequenziamento automatico di alcuni cloni ha confermato l’infezione da HPV 18 e ha inoltre rivelato la presenza di DNA di JC9813, un nuovo HPV a basso potenziale oncogeno, scoperto recentemente15.
I condilomi acuminati, o verruche veneree, consistono in papillomi cutanei dei genitali esterni e dell’area perianale, causati da alcuni tipi di papilloma-virus umani (HPV). Celso (I secolo d.C.) ha descritto accuratamente verruche del pene, associando chiaramente questa condizione ai rapporti sessuali. In ogni caso, mentre le attestazioni letterarie di verruche veneree risalgono certamente almeno a due millenni indietro, fino ad ora tali papillomi e virus non erano presenti nella letteratura paleopatologica16. La diagnosi di papilloma acuminato in paleopatologia riveste grande importanza poiché l’HPV 18 gioca un ruolo importante nella patogenesi di alcuni carcinomi del tratto genitale femminile17. Inoltre la scoperta, che rappresenta la prima diagnosi molecolare di HPV in tessuti mummificati, può aprire la strada ad ulteriori ricerche sull’evoluzione di questi virus nei secoli18.
Le superfici vestibolari dei denti di Isabella d’Aragona sono apparse fortemente abrase (Fig. 6). L’abrasione è particolarmente evidente sui denti anteriori dove lo smalto fu talora rimosso completamente. Le superfici non abrase sono risultate coperte da una patina nera con alti livelli di mercurio, come dimostra l’analisi mediante microsonda elettronica (EDS). Le superfici artificialmente abrase e l’usura derivante dalla masticazione sono state studiate tramite repliche alla nitrocellulosa e in resina al microscopio ottico ed al microscopio elettronico a scansione (SEM).
Le superfici abrase dei denti anteriori hanno presentato fitte strie orizzontali, mentre i denti posteriori presentavano strie oblique. Le abrasioni descritte sulle superfici vestibolari dei denti furono con ogni probabilità prodotte intenzionalmente. Lo studio microscopico delle superfici dentarie ha permesso la ricostruzione, almeno parziale, del modo in cui queste abrasioni furono prodotte.
L’esame macroscopico delle superfici labiali di alcuni denti più interessati dall’azione abrasiva rivelò un profilo ricurvo; infatti l’avvallamento prodotto mostrava un raggio costante, di circa 5 mm, su tutte le superfici esaminate. In altri termini il profilo ricurvo delle superfici abrase rifletteva l’immagine negativa del profilo dello strumento rigido che aveva dato origine alle abrasioni. E’ stato così possibile stabilire che lo strumento aveva una sezione cilindrica di circa 1 cm (come si poteva dedurre dal profilo della dentina rimossa). Le strie prodotte dallo strumento erano sempre diritte e parallele. Il diverso orientamento delle striature sui denti esaminati (quasi orizzontali sui denti anteriori e progressivamente più oblique man mano che si procede distalmente) sono in accordo con l’ipotesi dell’uso di uno strumento rigido per produrre l’abrasione dei denti; infatti, per abradere i denti pi distali con uno strumento rigido, era necessario aumentare progressivamente l’inclinazione dello strumento medesimo per evitare di ledere le guance.
Le strie masticatorie, che sono particolarmente marcate, possono essere attribuite all’azione di granuli abrasivi derivati dallo strumento utilizzato per l’abrasione volontaria. Inoltre, le superfici vicine ai premolari mostrano solchi dovuti probabilmente all’uso di stuzzicadenti metallici.
La patina nera dei denti può essere attribuita ad un’intossicazione cronica da mercurio usato verosimilmente a scopo terapeutico per il trattamento della sifilide venerea. I dati storici avvalorano l’ipotesi che le abrasioni siano state prodotte intenzionalmente nel tentativo di rimuovere la patina nera secondaria alla terapia mercuriale19.
Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, deceduto nel 1549 (Fig. 7), presentava un tumore maligno della regione naso-orbitaria destra. E’ stato infatti possibile rilevare la distruzione completa dell’osso nasale destro, con estesa erosione del margine orbitario superiore e della glabella. Anche le strutture ossee retro-orbitarie risultarono distrutte dal processo neoplastico. L’esame istologico al microscopio ottico evidenziò una neoplasia solida costituita da cordoni di cellule fusate, infiltranti e destruenti l’osso compatto e spugnoso, con formazione di ampie lacune ossee, senza traccia di reazione ossea. La diagnosi più probabile è quella di un carcinoma cutaneo estesamente destruente20.
Ferrante I di Aragona, re di Napoli e importante figura del Rinascimento italiano, morì nel 1494 all’età di 65 anni; la sua mummia artificiale è stata recentemente esumata nella Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli. L’autopsia evidenziò la presenza nel piccolo bacino di una parte di organo cavo etichettato, al momento del rinvenimento, come probabile “retto”. Dopo reidratazione il reperto apparve al taglio di colore marrone scuro, con numerose piccole aree biancastre del diametro variabile fra 0,5 e 5 mm. L’esame istologico (Ematossilina-eosina, van Gieson) evidenziò la presenza di cellule epiteliali neoplastiche disposte in cordoni, in ammassi solidi e in formazioni pseudo-ghiandolari, frammiste ad abbondante strema fibroso e a fibre muscolari striate. Le cellule apparivano alte, stipate fra loro, con citoplasma abbondante e con nuclei pleomorfi, iper-cromatici e pseudo-stratificati. Il muco appariva scarso ed esclusivamente all’interno delle formazioni pseudo-ghiandolari, come dimostrato dalle colorazioni specifiche (Alcian-blu). L’applicazione di un anticorpo monoclonale contro la pancitocherarina KL1 (Sorin) mostrò una forte immunoreattività intracitoplasmatica delle cellule tumorali, mentre la ricerca del PSA (Antigene Prostatico Specifico) e del CEA (Antigene Carcino-Embriogenetico) risultò negativa. La determinazione del PCNA (Proliferating Cell Nuclear Antigen) ebbe esito positivo, rilevando la presenza di cellule in attiva proliferazione. La microscopia elettronica evidenziò nuclei ben conservati, pleomorfi e con indentazioni. Questi risultati dimostrano chiaramente che ci troviamo di fronte ad un adenocarcinoma mucoso, estesamente infiltrante le strutture muscolari del piccolo bacino. È impossibile stabilire, con i dati a disposizione, la sede di origine del tumore; l’aspetto istologico depone per un adenocarcinoma della prostata o per un adenocarcinoma dell’apparato gastro-enterico21.
Poiché i carcinomi colo-rettali sono caratterizzati da frequenti mutazioni dell’oncogene K-ras22, decidemmo di studiare la situazione di questo gene nel DNA estratto dal tessuto tumorale mummificato. I campioni furono sottoposti alla reazione a catena della polimerasi (PCR) tramite un protocollo “nested” allo scopo di amplificare un frammento di 77 paia di basi comprendente il codone 12, il principale punto di mutazione nei carcinomi del colon. L’ibridazione con sonde oligonucleotidiche specifiche marcate con 32P mostrò la presenza nel campione di tessuto neoplastico di una mutazione puntiforme del codone 12: la sequenza normale GGT, codificante glicina, risultava mutata in GAT, codificante acido aspartico. Era la prima volta che una mutazione di un oncogene veniva dimostrata in un tumore antico. Questi dati dimostrano chiaramente che Ferrante I era affetto da un carcinoma del tratto gastro-intestinale, molto probabilmente un adenocarcinoma del colon23.
Il numero attualmente noto di tumori dei tessuti molli nell’Antichità è molto basso (circa 10 casi). Al contrario lo studio paleopatologico delle mummie di 11 individui adulti della Basilica di S. Domenico Maggiore, datati al XV-XVI secolo e in stato di conservazione dal buono all’ottimo, ha reso possibile la diagnosi di ben due casi di cancro. Ci troviamo pertanto di fronte ad una percentuale di patologia neoplastica maligna assai simile all’attuale (18,8%), sia pure nell’ambito dell’esigua casistica disponibile. Occorre puntualizzare però che, almeno per quanto concerne il re Ferrante, erano certamente presenti alcuni fattori “ambientali”, come una alimentazione molto ricca in zuccheri, in grassi e in proteine di origine animale, caratteristica di questa classe elevata del Rinascimento.
In conclusione, l’“ambiente” alimentare della corte napoletana del XV secolo giustifica ampiamente, con la sua abbondanza di mutageni naturali endogeni, la mutazione del gene alla base del tumore che uccise il sovrano aragonese oltre cinque secoli orsono. La scoperta dimostrò che era possibile mettere in evidenza sequenze di oncogeni nei tumori antichi e aprì nuove strade, inimmaginabili solo pochi anni fa, alla diagnostica paleopatologica delle neoplasie.
Un’altra mummia naturale ben conservata, purtroppo acefala per asportazione post-mortale del cranio, è quella di un giovane adulto di sesso maschile di circa 23 anni, identificabile con Ferrante d’Aragona, duca di Montalto, deceduto nel 1584. L’autopsia evidenziò un fegato di dimensioni ridotte e di consistenza lignea ma di normale morfologia con superficie irregolare per la presenza di noduli isolati o a gruppi.
L’osservazione macroscopica evidenziò una diagnosi di cirrosi, confermata dall’esame istologico (ematossilina-eosina e colorazione tricromica di Masson) e dall’analisi al microscopio elettronico. Al fine di identificare la possibile eziologia di questa cirrosi molto giovanile, furono impiegate tecniche addizionali routinarie in patologia. Le indagini hanno permesso di escludere patologie quali l’emocromatosi, l’accumulo di a1-tripsina e la malattia di Wilson. Questi risultati negativi e la macronodularità epatica chiara e diffusa depongono per un caso di cirrosi post-necrotica24.
La mummia di Luigi Carafa, principe di Stigliano (1511-1576), mostrò calcificazione diffusa del legamento longitudinale anteriore sul lato destro del tratto mediotoracico della colonna, con formazione di ponti ossei tra le vertebre, calcificazione del nucleo polposo ed esostosi diffuse a livello dell’articolazione dei gomiti, delle spalle, delle anche e delle ginocchia, incluso anche uno sperone calcaneare. Si tratta di un tipico caso di artropatia ossificante nota come “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa” (DISH)25.
Segnaliamo infine alcuni casi di patologia “minore”, sempre dalla serie rinascimentale della Basilica di S. Domenico Maggiore. La mummia naturale attribuita ad Antonello Petrucci, deceduto nel 1585 all’età di circa 40 anni, presentava una calcolosi della colecisti di tipo misto con tre calcoli più voluminosi ed altri più piccoli26. Un ignoto gentiluomo deceduto nella prima metà del XVI secolo reca una ferita mortale da punta, verosimilmente di spada, fra l’ottava e la nona costa di sinistra, sulla linea emiclaveare27. Abbiamo inoltre numerosi casi di obesità, anche in individui giovani28, grave aterosclerosi delle arterie carotidi comuni, con ampia placca ateromatosa (Oil Red +), nella mummia di re Ferrante I29 e infine tre casi di grave antracosi polmonare e alcuni casi di polmonite30.
Sebbene si tratti solo di una sintesi preliminare, il presente studio permette di farsi un’idea dell’importanza scientifica delle serie di mummie di San Domenico.
Nota: il presente lavoro fa parte di una più completa sintesi, ancora in corso di stesura, in collaborazione con la dr.ssa Claudia Voltaggio del Dipartimento di Studio delle Componenti Culturali del Territorio della II Università di Napoli, cui si devono tutte le notizie di carattere storico.
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. Fornaciari G., Marchetti A., Virus del vaiolo ancora integro in una mummia del XVI secolo: identificazione immunologica al microscopio elettronico (nota preliminare). Archivio per l’Antropologia e la Etnologia 1986; 116: 221-225; Fornaciari G., Marchetti A., Intact Smallpox Virus Particles in an Italian Mummy of Sixteenth Century. Lancet 1986; 8507: 625; Fornaciari G., Marchetti A., Intact smallpox virus particles in an Italian mummy of the XVI century: An immuno-electron microscopic study. Paleopathology Newsletter 1986; 56: 7-12; Fornaciari G., Marchetti A., Italian Smallpox of the Sixteenth Century. Lancet 1986; 8521/22: 1469-1470; Fornaciari G., Tornaboni D., Castagna M., Bevilacqua G., Togn