di Mariella Immacolato
(Commissione Regionale di Bioetica Toscana. Direttivo Consulta di Bioetica Milano. Direttore Unità operativa di medicina legale Asl 1 di Massa e Carrara).
“….Non luogo a procedere… il dr Riccio aveva il dovere di assecondare il malato”, la sentenza del gup di Roma, Zaira Secchi, del 23 Luglio 2007, non solo chiude definitivamente il caso Welby/ Riccio in sede giudiziaria, ma sgombra finalmente il campo da qualsiasi incertezza sul dovere che ha il medico di tutelare il diritto di autodeterminazione del paziente in ogni circostanza. Come la sentenza Massimo ha introdotto di fatto il consenso informato nella pratica clinica, così la sentenza Riccio ha il merito di rendere effettivo e completo il principio del consenso informato, riconoscendo inequivocabilmente il diritto del paziente di rifiutare qualsiasi cura anche salvavita. Ma ancora di più, in questa pronuncia il rispetto della volontà del paziente è parte integrante della buona pratica clinica e dell’ineccepibile comportamento professionale. Dobbiamo prendere atto che senza sentenze giudiziarie il cambiamento culturale che sta investendo il mondo della medicina e della scienza, più in generale, fa fatica ad affermarsi. Infatti il principio del consenso informato che troviamo nella Costituzione – anno 1947-, nella legge 833 del ’78, istitutiva del Sistema sanitario nazionale, e nel codice di deontologia medica fin dalla versione del 1978, per citare alcuni dei fondamenti normativi, di fatto, ancora adesso, in molte circostanze, perde il valore cogente rimanendo un principio astratto che, in concreto, rende il diritto di autodeterminazione del paziente un “diritto di carta”. La grande novità e l’importanza del caso Welby / Riccio stanno nel fatto che mentre le 4 sentenze del caso Massimo, che nel ’92 hanno segnato la fine del paternalismo medico1, hanno alimentato il dibattito tra gli addetti ai lavori, il confronto-scontro delle opinioni sul diritto di Welby di rifiutare le cure e il dovere del medico di rispettare tale richiesta, ha coinvolto il mondo civile. Forse, per la prima volta in Italia, si è aperto il confronto allargato a tutta la società su quale sia il compito della medicina: la difesa della vita in quanto tale? O la difesa della vita “buona”?
La battaglia civile di Welby, autentico leading case italiano, ha avuto pieno successo facendo chiarezza su cosa significa in concreto rispetto della dignità umana, tutela dei diritti fondamentali della persona, inviolabilità della libertà personale. Il collega Riccio, coraggiosamente, con la sua condotta professionale ha saputo realizzare i principi del codice di deontologia medica2 offrendo una prestazione professionale “ineccepibile” dal punto di vista tecnico, deontologico, e della legittimità giuridica. Credo che sia giunto il momento per i medici di riacquistare fiducia nelle proprie capacità di scegliere consapevolmente nelle situazioni eticamente controverse facendo riferimento ai principi affermati nel codice deontologico e a quelli che la bioetica sta diffondendo nel mondo sanitario. L’etica dissociata dalla riflessione, da una vera argomentazione morale, diventa puro moralismo. Si tratta di una deriva inquietante: l’etica non deve ridursi a darci una lista di ciò che è bene o male, ma motivare le azioni umane. Qualsiasi azione, quando viene osservata attraverso la riflessione morale, non si riduce a una questione di Bene o Male, ma sconfina in una zona grigia complessa, che caratterizza la maggior parte dei comportamenti umani. Se l’operatore sanitario diventa consapevole che tale complessità è parte integrante della propria attività professionale può definitivamente affrancarsi dalla cosiddetta medicina difensivistica che è il peggior modo di fare il medico.
Dopo questa sentenza di assoluzione piena di Riccio è auspicabile augurarsi che quella parte di mondo giuridico, rimasto chiuso ai cambiamenti che sono intervenuti, guardi con maggiore attenzione alla molteplicità della realtà biomedica e alla rivoluzione che l’ha investita utilizzando le categorie concettuali non solo del codice penale che risalgono al 1930 (epoca di emanazione del Codice Rocco) ma anche a quelle che derivano dalla Costituzione Italiana e dalla normativa nazionale e sopranazionale che via, via si è succeduta. In questo modo è possibile raccogliere le nuove istanze personalistiche e offrire una lettura costituzionalmente orientata della normativa, individuando nelle fonti supreme del diritto la risposta alla domanda posta da Welby.3
Nella vicenda Welby il conflitto tra i 2 valori- indisponibilità della vita (secondo il diritto penale) e libertà di autodeterminazione del paziente (di rango costituzionale)- si è definitivamente risolto a favore, inequivocabilmente, del secondo.
A chi poi nella vicenda Welby si è lamentato della eccessiva spettacolarizzazione del caso, eccependo una intrusione inaccettabile dei media, credo che si debba rispondere che le decisioni mediche sono ormai “pubbliche” e non più solo “private”. Le diverse scelte al riguardo cambiano stili di vita e i comportamenti sociali, per cui assumono un carattere pubblico e politico. Pertanto la medicina si fa a letto del malato, ma sui giornali si discutono le decisioni che vanno prese.
Infine credo che dalla vicenda Welby si possa trarre anche la riflessione che l’appropriatezza etica dell’assistenza, che è un campo su cui i sistemi sanitari devono confrontarsi, si misura in come vengono tutelati i diritti e la dignità degli utenti “deboli” nelle circostanze critiche.
- Sentenza Corte di Cassazione n. 699 del 1992 “…la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che […] riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare”.
- Codice di Deontologia Medica (16 dicembre 2006) TITOLO III – RAPPORTI CON IL CITTADINO CAPO IV Art. 35 Informazione e consenso – Acquisizione del consenso –
Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33.
Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente.
Art. 38 – Autonomia del cittadino e direttive anticipate – Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa
della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa.
Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto,
ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante deve segnalare il caso all’autorità giudiziaria; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato. - Norme e istanze
– artt. 32 e 13 della Costituzione costituiscono il nucleo della normativa;
– il consenso al trattamento medico sanitario non e’ piu’ fondato sul generico e generale consenso scriminante il reato di cui all’art. 50 c.p. e che come tale incontra -se non altro per esser fonte di pari grado- i limiti dell’art. 5 c.c. Al contrario il consenso e il dissenso derivano direttamente e precettivamente dagli articoli 13 e 32 della Costituzione e come tale supera ogni ostacolo derivante da normativa inferiore (579 c.p., 580 c.p., 5 c.c.). La Costituzione ha sancito l’incoercibilita’ del vivere;
– il consenso del paziente e’ l’unico fondamento alla liceita’ dell’attivita’ medica, in assenza del quale si incorre in violenza privata e in lesioni dolose (610, 582, 590 c.p.). In assenza di consenso informato il sanitario non puo’ piu’ invocare l’utilita’ sociale, la potesta’/diritto alle cure o quant’altro di paternalistico sia stato in passato posto a suo esclusivo fondamento.
Sentenze
L’orientamento trova fra i suoi principali riferimenti (oltre che nella dottrina maggioritaria), anche pronunce importanti fra le quali:
– Cassazione penale sez. IV dell’ 11 luglio 2002 n. 1572 (rovesciamento di prospettiva sul consenso);
– ancor piu’ esplicita la Corte d’Appello di Milano nel caso Englaro (salvo poi non riconoscere la natura di trattamento sanitario all’alimentazione e idratazione artificiale!);
– Caso Pretty Vs.Gran Bretagna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 29 aprile 2002 (caso analogo al caso Welby, in cui la Corte nega il diritto all’eutanasia attiva, ma legittima ed eleva a diritto protetto dagli articoli 3 e 8 della Convenzione, in modo esplicito l’eutanasia passiva).
Nota tratta da art. di Claudia Moretti ““ Welby: "Posso staccare il respiratore artificiale senza esser condannato ad una morte lenta e dolorosa?"”