Risultati della ricerca
La paleopatologia, definita da Sir Armand Ruffer – uno dei fondatori della disciplina – “lo studio delle malattie nei resti umani antichi”, è diventata in questi ultimi anni una vera e propria branca autonoma della medicina, comprendente storia, archeologia, antropologia ed anatomia patologica1. Essa studia le malattie direttamente nei corpi umani del passato, scheletrizzati o mummificati; pertanto si avvale di un tipo di approccio completamente diverso dalla storia della medicina, che predilige la storia dei medici e delle terapie, e studia anche le malattie del passato, basandosi però esclusivamente sulle fonti storico-letterarie. La paleopatologia riveste un duplice interesse: antropologico e medico; antropologico, perchè dalle caratteristiche e dall’incidenza delle diverse malattie del passato è possibile risalire, indirettamente, alle abitudini e allo stile di vita delle antiche popolazioni; medico, perchè lo studio dell’origine di alcune importanti malattie dell’epoca attuale, come il cancro e l’arteriosclerosi, e la ricostruzione delle origini e delle prime vie di diffusione delle malattie infettive, non può non suscitare un forte interesse nel campo della medicina 2.
Lo studio delle malattie del passato è progredito enormemente in questi ultimi 30 anni, di pari passo con la medicina attuale, grazie soprattutto alle nuove tecnologie biomediche. Infatti l’applicazione degli anticorpi (immunoistochimica) allo studio dei tessuti antichi ha permesso diagnosi più esatte, mentre nuove tecniche radiologiche, come la tomografia assiale computerizzata (TAC), hanno reso possibile lo studio delle mummie senza metodi invasivi. Infine, lo studio del DNA antico (aDNA) sta rivoluzionando la paleogenetica e le nostre conoscenze sulle malattie infettive del passato.
Nel caso del “Progetto Medici” la paleopatologia, con tutte le sue sofisticate tecniche di indagine, sarà applicata allo studio della celebre famiglia fiorentina, i cui esponenti sono sepolti nelle Cappelle Medicee della Basilica di S. Lorenzo a Firenze (Figura 1).
Figura 1 | Figura 2 | Figura 3 |
Due sono, come è noto, i rami principali dell’albero genealogico della famiglia: quello di Lorenzo il Magnifico (1446-1492) e quello dei Granduchi di Toscana, da Giovanni delle Bande Nere (1498-1526) all’ultimo Granduca Gian Gastone (1671-1737). Proprio questa seconda serie, molto meno indagata dagli antropologi del passato, costituisce l’obbiettivo del “Progetto Medici”3.
Il “Progetto Medici”, sorto da un accordo di collaborazione scientifica fra l’Università di Pisa, l’Università di Firenze e la Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino, condurrà una ricerca archeologica e paleopatologica sulle 49 deposizioni funebri dei Granduchi dei Medici, nelle famose Cappelle Medicee della Basilica di San Lorenzo a Firenze. Lo studio comprenderà: archeologia funeraria, antropologia, paleonutrizione, parassitologia, anatomia patologica, istologia, istochimica, immunoistochimica, microscopia elettronica, biologia molecolare (studio del DNA antico) e identificazione degli agenti patogeni antichi. Praticamente tutte le tecnologie biomediche più moderne saranno utilizzate per una ricostruzione biologica globale, allo scopo di ottenere più informazioni possibili sull’ambiente, lo stile di vita e le malattie di questi importanti personaggi del Rinascimento italiano4.
Per lo studio preliminare dei corpi è stato necessario allestire un vero e proprio laboratorio provvisorio nella vicina “Cappella Lorenese” (Figura 2), la cripta funeraria dei Granduchi di Lorena, che governarono Firenze e la Toscana dopo i Medici, fino al 1859.
Le esplorazioni hanno avuto inizio nel maggio 2004, con l’apertura della tomba di un personaggio minore, Don Garzia (1547-1562), giovane figlio di Cosimo I, scelta proprio allo scopo di chiarirne le modalità di giacitura, in quanto già indagata nel 1948 dal prof. Gaetano Pieraccini, noto medico e studioso dei Medici di allora5.
Rimossa la lastra di marmo con l’epigrafe ci trovammo inaspettatamente di fronte ad un enorme lastrone di pietra del peso di alcuni quintali, che fu sollevato mediante un paranco. Comparve allora un loculo pavimentale in muratura con il fondo coperto da uno spesso strato di fango essiccato, testimone della grande alluvione di Firenze del 1966, ed una cassetta metallica con i resti scheletrici di Don Garcia, ancora avvolti in un telo di lino e in eccellente stato di conservazione.
Decidemmo quindi di esplorare una tomba intatta e la scelta cadde, per motivi pratici, su quella di Gian Gastone (1671-1737), l’ultimo Granduca dei Medici (Figura 3); infatti si trattava di una sepoltura posta dietro l’altare delle Cappelle Medicee e quindi piuttosto defilata dal flusso turistico. Si verificò subito un piccolo giallo in quanto, contrariamente alle attese, sotto la lastra di marmo con l’epigrafe di Gian Gastone non fu rinvenuto alcun loculo. Alla fine, dopo avere rimosso un disco di marmo scuro posto in prossimità del vicino altare e considerato un semplice elemento decorativo del pavimento, comparve un’apertura con una scaletta in pietra che dava accesso ad una cripta sconosciuta.
La cripta funeraria rivelò la presenza di un grande sarcofago, posto su una panchina di pietra davanti alla scala, da identificarsi evidentemente con quello del Granduca, e di alcune bare lignee, completamente sfasciate, sul pavimento, coperto dal solito strato di fango alluvionale.
Figura 4 | Figura 5 | Figura 6 |
Il tasso di umidità (80-90%) e la temperatura elevata (30°C) imposero, su indicazione dell’Opificio delle Pietre Dure (il grande Istituto di Restauro di Firenze), la climatizzazione computerizzata dell’ingresso della cripta, che eliminò il rischio di danneggiamento dei sarcofagi e dei corpi a causa dell’ingresso di aria esterna durante il lavoro degli archeologi.
Il sarcofago ligneo del Granduca Gian Gastone, apparentemente ben conservato, risultò molto deteriorato a causa dell’umidità. Al suo interno comparve un altro sarcofago di piombo, con una grande croce cristiana sul coperchio.
La deposizione funeraria risultò intatta: il Granduca portava ancora la corona (Fig. 6) e indossava la cappa magna di Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, mentre, ai lati della testa, giacevano due grandi medaglioni d’oro e un crocefisso d’argento, in corrispondenza del torace; ai piedi era stato deposto un grande tubo di piombo, evidentemente con all’interno un documento in suo onore.
Al diritto dei medaglioni, capolavori di Luigi Siries, incisore granducale della prima metà del XVIII secolo, compare un tempio in rovina con due donne, rappresentanti le arti e le scienze, che piangono la morte del Granduca, e la iscrizione in latino “AMPLIATORI ARTIUM” (al protettore delle Arti). Al rovescio è raffigurato un monumento con il busto del Principe e la Speranza che depone un’ancora vicino ad un’urna funeraria, con l’iscrizione in latino “IO(HANNIS) GASTO(NIS) I ETR(URIAE) MAG(NUS) DUX VII” (Gian Gastone I, VII Granduca di Toscana) (Fig. 8)6.
In corrispondenza del pavimento, o variamente distribuiti sulla panchina, furono rinvenuti diversi sarcofagi infantili, assai danneggiati dall’alluvione del 1966. L’accurata mappatura dei resti di otto bambini, di età compresa fra la nascita e i cinque anni permise, con il ritrovamento di parti dello stesso individuo in posizioni differenti e distanti fra loro, di avere un’idea degli spostamenti subiti dai sarcofagi e dai corpi nel corso dell’inondazione.
Contro ogni aspettativa, alcune deposizioni infantili apparvero ben conservate. Un bambino di cinque anni conservava ancora le vesti, le scarpe e una corona di argento in eccellenti condizioni di conservazione (Figura 4). La veste, comprendente una giubba di seta rossa con decorazioni floreali e galloni in argento, con colletto basso e bottoni, e pantaloni larghi, al ginocchio, dello stesso tessuto, è risultata incredibilmente simile a quella di Don Filippino (1577-1582), giovane figlio del Granduca Francesco I, deceduto proprio a 5 anni di età (Figura 5). Altre sepolture come, ad esempio, quella di un bambino di circa nove mesi, avvolto in una preziosa veste di seta con polsini in filo di argento, sono apparse meno ben conservate. L’identificazione definitiva degli otto individui ritrovati, fra lattanti e bambini – evidentemente principi medicei deceduti in tenera età – richiederà l’utilizzo di tecnologie sofisticate, basate sul DNA antico.
Riferiamo ora i primi risultati dello studio paleopatologico.
Cosimo I (1519-1574) [MED6]7, fondatore della dinastia granducale (Figura 6), è apparso un individuo vigoroso, con un’età antropologica di 50-60 anni, una statura di m 1,78, cranio medio e naso stretto8. Le forti inserzioni muscolari degli arti (deltoide, gran pettorale, gran dorsale, bicipite, muscoli dell’avambraccio, muscoli della coscia) depongono per un uomo molto robusto9. I marcatori ossei e funzionali dei cavalieri, cioè le modificazioni dello scheletro dovute alla pratica continua dell’equitazione (artrosi lombo-sacrale; esostosi ed ovalizzazione delle cavità acetabolari; ipertrofia del retto del femore; forte ipertrofia del bicipite del femore, del grande adduttore, del piccolo gluteo, della tuberosità glutea, del pettineo, del vasto laterale e del gastrocnemio; osteofitosi della fovea e della testa del femore nella fossa trocanterica; rotazione e schiacciamento del piccolo trocantere; ipertrofia del soleo molto marcata) 10, sono risultati tutti presenti. La presenza di diverse ernie vertebrali di Schmorl, causate da sovraccarichi ponderali sostenuti nel periodo dell’adolescenza, rivela che il giovane Cosimo si allenò a fondo con le pesanti armature dell’epoca11.
La storia clinica di Cosimo I è stata ricavata da un archivio estremamente ricco di dati, comprendente le relazioni degli ambasciatori e dei medici di corte. A parte alcune malattie minori, come vaiolo, febbri malariche a 24 e 25 anni, “renella” e “febbri catarrali”, il quadro dominante dopo i 50 anni è quello di una grave arteriosclerosi precoce, con paralisi del braccio sinistro, emiparesi destra, instabilità psichica, incontinenza urinaria e, infine, afasia e agrafia (perdita della capacità di parlare e di scrivere). Viene inoltre segnalata una malattia articolare acuta ricorrente, una sorta di artrite, genericamente denominata dai medici di corte come “gotta”.
Il decesso avvenne a 55 anni, in seguito ad una “febbre catarrale”, probabilmente una broncopolmonite12.
Lo studio paleopatologico rivela che Cosimo I era affetto da artrosi diffusa, sia vertebrale (a livello della colonna toracica basso e lombare) che extravertebrale (a livello dello sterno, delle spalle, dei gomiti, delle anche, delle ginocchia e dei malleoli), con tutta probabilità secondaria alla sua intensa attività fisica13.
La calcificazione e la fusione del legamento vertebrale anteriore di destra (Figura 7) e le calcificazioni diffuse dei ligamenti articolari dimostrano in modo inequivocabile che il Granduca non era affetto da gotta, di cui mancano totalmente i segni articolari, ma da DISH (dall’acronimo inglese di “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa”), una malattia articolare dall’incerta eziologia e legata al diabete e all’obesità14.
Un chirurgo di corte piuttosto maldestro, per procedere all’autopsia e all’imbalsamazione del corpo15, tentò ben due volte, senza successo, di segare il cranio a livello del parietale destro; solo al terzo tentativo riuscì ad ottenere un taglio orizzontale piuttosto grossolano. Il cranio fu infine aperto facendo leva con uno scalpello e danneggiando seriamente la teca cranica in tre punti (Figura 8).
Figura 7 | Figura 8 | Figura 9 |
La granduchessa Eleonora di Toledo (1522-1562) [MED5] (Figura 9), figlia del viceré di Napoli e sposa di Cosimo I, è apparsa una donna con un’età antropologica di 36-46 anni, alta m 1,58, con cranio medio-basso, orbite alte e faccia e naso stretti16. Le inserzioni muscolari (deltoide, gran dorsale, flessori e supinatore dell’avambraccio, muscoli della coscia, soleo della gamba destra) depongono per un’attività muscolare più che buona e, probabilmente, per una discreta pratica dell’equitazione17.
La storia clinica di Eleonora di Toledo è dominata dal gran numero di parti. Infatti, da 18 a 32 anni, dette alla luce ben 11 bambini. Probabilmente proprio per questo motivo, si ammalò a 29 anni di tubercolosi polmonare, malattia che, insieme ad un attacco di malaria perniciosa, doveva condurla a
morte all’età di 40 anni18. Un famoso ritratto del Bronzino la raffigura proprio a questa età, ormai emaciata e sofferente.
Lo studio paleopatologico rivela che Eleonora, durante l’infanzia, fu affetta da una lieve forma di rachitismo – evidentemente il sole di Napoli non raggiungeva le stanze del palazzo del vicerè! – come dimostra la leggera curvatura delle tibie19.
Presenta inoltre, a livello del bacino, i segni scheletrici (esteso solco pre-auricolare, fossetta retro-pubica) dei numerosi parti sostenuti20.
Al momento del decesso Eleonora di Toledo era affetta da una grave patologia dentaria, con numerose carie destruenti, evidentemente in conseguenza delle numerose gravidanze.
Eleonora soffriva inoltre di una leggera artrosi della colonna (a livello atlanto-occipitale, toracico basso e lombare alto) e delle grandi articolazioni (a livello della spalla, del gomito, del polso, dell’anca, delle caviglie)21.
Lo scheletro del cardinale Giovanni (1543-1562) [MED3], secondo figlio di Cosimo I e di Eleonora, è risultato quello di un giovane con un’età antropologica di 19 anni ed una statura di m 1,75.
La storia clinica segnala che il giovane cardinale, e arcivescovo di Pisa, morì nell’ottobre 1562 per malaria perniciosa, contratta in Maremma durante una visita di stato a Grosseto con i genitori ed i fratelli Garzia e Ferdinando22.
Lo studio paleopatologico ha evidenziato una carie penetrante, con ascesso, del primo molare superiore di sinistra e un quadro di lieve ipoplasia dello smalto, che suggerisce due episodi di stress, nutrizionali o morbosi, all’età di 2 e 3 anni. Alcune ernie di Schmorl, presenti sui corpi vertebrali toracici e lombari, rivelano che, durante l’adolescenza, la colonna di Giovanni fu sottoposta a notevoli sovraccarichi ponderali, verosimilmente per allenarsi all’uso delle armi23.
Lo scheletro di don Garzia (1547-1562) [MED4], settimo figlio di Cosimo I and Eleonora, anche lui deceduto per malaria perniciosa come la madre e il fratello Giovanni24, appartiene ad un adolescente di 15-16 anni , alto m 1,67.
Lo studio paleopatologico rivela una carie non penetrante del primo molare superiore di sinistra e alcune, evidenti linee di ipoplasia dello smalto, che attestano episodi di stress all’età di 2, 3 e 4 anni.
Il Granduca Francesco I (1541-1587) [MED11] (Figura 10), figlio primogenito di Cosimo, è apparso, allo studio antropologico, un uomo longilineo ma vigoroso, con un’età antropologica di 40-50 anni, una statura di m 1,74, cranio medio e naso stretto25. Infatti le inserzioni muscolari del deltoide, del gran pettorale, del gran dorsale, del bicipite e dei muscoli dell’avambraccio risultano tutte assai pronunciate26. I marcatori scheletrici dei cavalieri (artrosi lombo-sacrale; esostosi ed ovalizzazione delle cavità acetabolari; ipertrofia del retto del femore; forte ipertrofia del bicipite del femore, del grande adduttore, del piccolo gluteo, della tuberosità glutea, del pettineo, del vasto laterale e del gastrocnemio; osteofitosi della fovea e della testa del femore nella fossa trocanterica) 27 sono, come nel padre, quasi tutti presenti.
Questi nuovi dati antropologici ribaltano totalmente lo stereotipo tradizionale di un principe intellettuale e sedentario, il cosiddetto “principe dello studiolo” secondo la definizione di Luciano Berti, completamente dedito ai propri studi28. Al contrario, Francesco risulta un uomo fisicamente molto attivo.
Anche la storia clinica di Francesco I è ben nota dai documenti di archivio. A parte alcune malattie meno gravi, come una bronchite a venti anni e una polmonite a trentotto anni, Francesco I, dai trentacinque anni in poi, diventò piuttosto obeso e soffrì ripetutamente di “renella”, con coliche; morì a 46 anni, verosimilmente in seguito ad un attacco di malaria perniciosa29.
Egli ebbe una vera e propria passione per gli studi alchemici, che praticò anche con un discreto successo (Figura 11). Riuscì infatti a fondere il cristallo di rocca e a produrre, nella fornace annessa al laboratorio alchemico di Palazzo Pitti, la cosiddetta “porcellana medicea”30. Come alchimista passava gran parte del suo tempo in laboratorio e fu certamente esposto ad intossicazioni croniche che lo studio tossicologico, attualmente in corso, potrà forse documentare.